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Basta parlare di Resilienza!

Storia di come una parola con un significato sia diventata buona solo per un tatuaggio cafone e di come l'Italia non abbia capito bene che opportunità ha tra le mani.

Agli inizi di questo nuovo lock down a zone, mi sono ritrovato a pensare ai mesi passati in clausura e conseguente rilassamento estivo… per poi ritornare punto a capo confinati in casa.

Tra le tante cose che si sono scoperte grazie alla pandemia, tipo Zoom o che c’è un perché del lavarsi spesso le mani spesso, c’è la parola “resilienza”. Una delle parole più potenti e abusate degli ultimi anni.

La definizione migliore che io conosca di questo concetto, mi è stata data dal mio ex-professore di Modellazione Ecologica all’università, ovvero: “La resilienza è la capacità di un sistema di rispondere ad una perturbazione per ritornare al proprio equilibrio o per adattarsi ed evolvere verso uno nuovo. Il tutto, restando all’interno di limiti tali da mantenerne l’identità e funzione”.

Di per sé non è un concetto semplicissimo da digerire.

Probabilmente è per questo che viene interpretata male.

Per spiegare cosa vuol dire resilienza, provate ad immaginare una foresta di montagna, di quelle piene di pini per capirci. Nella definizione riportata sopra, parlando di perturbazione si intendono fattori naturali o antropici che causino un cambiamento dell’equilibrio dell’ecosistema, tipo: la temperatura, più o meno luce solare, e/o l’umidità.

Se aumenta la temperatura media per colpa del cambiamento climatico, per esempio, l’equilibrio della foresta cambia per adattasti. Di conseguenza mentre i pini pian piano scompaiono perché inadatti al caldo, noci, betulle, faggi, ecc… prosperano e la foresta cambia aspetto.

Questo ecosistema è da considerarsi resiliente perché, anche se diventa una foresta di latifoglie, la sua identità viene preservata. È ancora una foresta. Il disboscamento invece è uno stress talmente forte che la natura non riesce a compensare e di conseguenza la foresta muore.

Nonostante quello che ci è stato detto durante il lock down e che continuiamo a ripeterci, non siamo stati resilienti. Siamo stati resistenti.


Ci siamo opposti il più possibile al virus e alle misure imposte per contenerne gli effetti, e se domani finisse tutto, la stragrande maggioranza di noi tornerebbe a ciò che faceva prima e come lo faceva prima.

Il tutto senza interrogarsi su cosa ci ha portato ad una situazione simile, come fare per vivere meglio ed evitarne un’altra.

Resilienza infatti, implica spirito di adattamento e un continuo stimolo di evoluzione, che per la società si traduce in un miglioramento in generale delle sue condizioni.

L’Italia ha resistito a malapena alla prima ondata di contagi e adesso che si trova ad affrontare la seconda è ugualmente impreparata.

In tempi in cui servirebbero intraprendenza e coesione per rispondere adeguatamente all’emergenza ed essere meglio di prima (come si è detto spesso negli slogan in questi mesi), i governi, e la società tutta, restano ancorati su posizioni vecchie e difficili da schiodare.

In tal senso, durante i mesi della prima ondata, l’Unione Europea si è mossa per definire una strategia che contrasti questa situazione emergenziale: il Next Generation EU.
La Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha anche dichiarato: “Con il piano per la ripresa trasformiamo l’immane sfida di oggi in possibilità, non soltanto aiutando l’economia a ripartire, ma anche investendo nel nostro futuro: il Green Deal europeo e la digitalizzazione stimoleranno l’occupazione e la crescita, la resilienza delle nostre società e la salubrità dell’ambiente che ci circonda” (Il momento dell’Europa: riparare e preparare per la prossima generazione“, Comunicato Stampa, Bruxelles 27.05.2020).

Lo spirito con cui è nato questo pacchetto di regole e fondi, tanti fondi, è quello di sostenere la ripartenza e aiutare i paesi dell’UE ad uscire dalla pandemia meglio di come ci sono entrati. I pilastri del piano: digitalizzazione, investimento in formazione, lotta al cambiamento climatico, diversità ed inclusività, ecc. sono la struttura portante di una società che funziona e prospera.

Il fatto che qui in Italia, questo piano venga per lo più chiamato Recovery Fund, che tradotto dall’inglese significa “fondo di recupero/ripresa”, da l’idea di quanto poco chiara sia l’opportunità ci viene offerta da uno strumento simile e dalle circostanze in cui ci troviamo. Recupero infatti, significa ritornare al prima cioè senza la spinta verso tentativi di miglioramento.

Pertanto, quando i politici italiani sventolano i pilastri del Next Generation EU/Recovery Fund come se fossero lampi di genio e progressismo, ricordatevi che non sono nient’altro che le aree di intervento definite dal documento e se gli investimenti non verranno fatti in quell’ottica, l’Italia non riceverà un centesimo a sostegno di tali opere… e sarà l’ennesima grande occasione che questo paese spreca per crescere in meglio.

Per cui siamo il più possibile obiettivi e critici quando ascoltiamo i nostri rappresentanti e facciamo uno sforzo per essere davvero migliori di come eravamo… e con un po’ di fortuna andrà davvero tutto bene.

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