Il miliardo in meno – Storia di un mondo che cambia (in peggio)

Nell’anno appena passato siamo riusciti ad avere di nuovo gli stessi occupati pre-crisi.

Champagne, cotillon e altro per festeggiare?

Beh, non proprio. Se vediamo in fondo ai dati, possiamo vedere come, a parità di occupati, abbiamo un miliardo in meno di ore lavorate (fonte CGIA), pari al – 5% delle ore totali. Inoltre, i lavoratori a tempo parziale sono aumentati dal 14 al 19%.

Il nuovo record dei lavoratori a termine (2.8 milioni ad Ottobre) potrebbe essere giustificato dal corretto principio del “meglio un lavoratore precario che disoccupato”. Giustissimo. Ma questo principio è valido se un’azienda, che non ha bisogno di nuovi lavoratori, decida di assumere qualcuno in modo precario a seconda dei picchi di produzione.

Ma la domanda è: dato che dal 2004 abbiamo 1 milione di precari in più, vuol dire che il rischio legato a ben 1 milione di posti di lavoro è troppo alto per preferire il tempo indeterminato?

Chiaramente no, semplicemente nel corso del tempo c’è stato uno spostamento del potere contrattuale dal lavoratore all’impresa. I governi hanno fatto di tutto per cercare di aumentare i posti di lavoro attraverso la ricetta universale della “flessibilità”. E non a parole, ma attraverso tante riforme, aiuti alle imprese, ecc…


Se andiamo nel dettaglio, abbiamo avuto, solo per citare le principali: Decreto Sacconi 2001, Biagi-Maroni 2003, Fornero 2012, Jobs Act 2015. E decine di miliardi di euro di sgravi fiscali. Il risultato? Nel 2004 il tasso di occupazione era il 57.6%, oggi siamo al 58.4%, con un incremento quasi tutto sulle spalle dei lavoratori atipici.

Da più di 15 anni (non un giorno!) siamo martellati da questo continuo richiamo alla flessibilità e alla riduzione dei diritti individuali dei lavoratori come leve per incrementare l’occupazione totale. Questa teoria da “macroeconomia classica” mal si sposa con l’economia odierna che ha delle basi completamente diverse rispetto al passato, ma soprattutto si scontra con background culturali molto diversi rispetto a quelli dei fautori.

Le teorie, quasi tutte di stampo anglo-sassone, si basano su competitività estrema, mercato fluido dei capitali, mercato del lavoro totalmente flessibile sia in entrata sia in uscita.

Se negli USA vieni licenziato, è probabile che la settimana dopo trovi un lavoro da un’altra parte. In Italia no. Per quanto millantata, se in Italia vieni licenziato il reinserimento è tutt’altro che semplice ed immediato. Inoltre, c’è un fattore culturale che viene totalmente dimenticato. Storicamente, il posto di lavoro è associato alla “stabilità” e al “posto fisso”, non è nel nostro DNA quel dinamismo tipicamente americano.



In sintesi, le ricette “universalistiche” sul mercato del lavoro per attrarre capitali e creare nuovi posti di lavoro hanno clamorosamente fallito negli ultimi 15 anni in Italia, abbattendo drasticamente i livelli salariali e i diritti individuali soprattutto nei più giovani.

A livello di sistema, dobbiamo tornare a garantire maggiore stabilità e maggiore potere d’acquisto nelle fasce più giovani, anche perché essi sono più propensi al consumo rispetto alle fasce più anziane della popolazione ed essi rappresentano l’elemento chiave per poter far ripartire in modo serio la domanda aggregata e, quindi, l’economia stessa.

 

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